Nella seconda metà del 1513 l’ex segretario della Cancelleria della Repubblica fiorentina Niccolò Machiavelli redigeva gran parte de Il Principe (la dedica a Lorenzo de’ Medici e l’ultimo capitolo, vennero composti alcuni anni dopo). A 500 anni di distanza da quella prima stesura ci si continua a chiedere se Il Principe sia una figura, o un’entità, necessaria nell’italietta che non riesce ancora a sentirsi, quindi ad essere, una nazione moderna.
Antonio Gramsci annotava nei quaderni scritti in carcere che il Principe delineato da Niccolò Machiavelli ben rappresentava, nell’epoca sua, il Partito Organizzato.
Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistematica, ma un libro ‘vivente’, in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del ‘mito’. (…) Nella conclusione il Machiavelli stesso si fa popolo, si confonde col popolo, ma non con un popolo ‘genericamente’ inteso, ma col popolo che il Machiavelli ha convinto con la sua trattazione precedente, di cui egli diventa e si sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza: pare che tutto il lavoro ‘logico’ non sia che un’autoriflessione del popolo, un ragionamento interno, che si fa nella coscienza popolare e che ha la sua conclusione in un grido appassionato, immediato. La passione, da ragionamento su se stessa, ridiventa ‘affetto’, febbre, fanatismo d’azione. Ecco perché l’epilogo del Principe non è qualcosa di estrinseco, di ‘appiccicato’ dall’esterno, di retorico, ma deve essere spiegato come elemento necessario dell’opera, anzi come l’elemento che riverbera la sua vera luce su tutta l’opera e ne fa come un ‘manifesto politico’ .
Gramsci pensava che il Partito non fosse l’insieme dei militanti, degli intellettuali e dei dirigenti, ma una entità “trasfigurata” dalla comunanza di obiettivi, dall’elaborazione continua di progettualità, dall’idealità di liberare la classe oppressa rendendola egemone e, al contempo, di liberare tutta la società civile dall’abominio dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Insomma un’entità trasfigurata dalla “prassi politica”, capace di entrare nella Storia e di trasformarla radicalmente.
Un Partito non già specchio della società civile, ma potenza in atto nella società civile. Pura razionalità dialettica dispiegata sulla Storia.
(…) Oggi, anche i migliori intellettuali che provengono dalla medesima tradizione filosofica di Antonio Gramsci ammettono, con rassegnata consapevolezza, di non riconoscere alcuna razionalità dialettica nella Storia. Ovvero – come ha affermato in varie occasioni Gianni Vattimo – rifiutano l’idea che il Mondo sia un sistema di cause ed effetti, ricostruibile secondo una rigorosa applicazione del Satz vom Grund, il principio di ragion sufficiente, proprio nei termini in cui lo ha descritto Martin Heidegger, ovvero come la legge che ordina il dispiegarsi della metafisica nell’organizzazione scientifico-tecnologica moderna.
(…) I partiti sono divenuti solo uno specchio della società civile, quindi se nella società civile soffiano venti di crisi morale, ideale e progettuale, anche il personale dei partiti, ovvero i “politici”, sono incapaci di esprimere moralità, idealità e progettualità.
La mancanza di pensiero forte attorno al perseguimento del “bene comune”, ha cessato di alimentare la prassi politica ed ha frantumato e disperso i luoghi di elaborazione della Politica, restituendo alla percezione dei cittadini un’assenza, piuttosto che una presenza, una distanza, piuttosto che una comunanza.
(…) E così i partiti sono divenuti un’aggregazione di feudi fondati sugli interessi di gruppi di potere. Il principe regna, mentre i Boiardi si spartiscono prede, impongono gabelle e decime, si scannano tra loro nelle sonnolente province italiche.
(…) La frammentazione, seguita alla fine dei partiti storici, ha dato vita a soggetti solo virtualmente strutturati, incapaci di coinvolgere le complessità della società civile, di comprenderne i turbamenti e le paure, di guidarla. È venuta meno la capacità di interscambio informativo con le molteplici e variegate opinioni pubbliche del Paese.
(…) Nel vuoto immenso aperto da una coscienza collettiva debole, incapace di elaborare le ragioni della propria Storia, è evaporata la passione civile, ma anche la preoccupazione per il bene comune e la stessa consapevolezza di essere “popolo”.
(…) Si preferisce dimenticare piuttosto che sviluppare un giudizio condiviso e, quindi, un comportamento politico conseguente. L’Italia è il paese del rimosso.
La politica italiana, così ricca di praticoni, di venditori di fumo, di comici e ladri è figlia dei limiti critici di un popolo. La casta esiste perché trova nel Paese rassegnazione, ma anche complicità, disinteresse, ma anche consenso. Milioni di italiani votano e continueranno a votare pensando ad egoismi territoriali, a rivendicazioni locali o addirittura personali.
Il Principe di Niccolò Machiavelli avrebbe dovuto avere la capacità di fondere il suo destino con quello di tutto un popolo, dopo averne ridestato consapevolezza e coscienza. Nei tempi moderni i principi apparsi in Italia hanno fondato la loro esistenza sull’assenza di consapevolezza politica del popolo.
In questo senso possiamo dire che è tutta un’altra storia…
[Sintesi tratta da Preferirei di no, di Igor Patruno]