Si sente stanco. Stanco di scappare.
Da quanto tempo lo sta facendo? Quattro mesi? No, almeno sette anni.
Il 30 gennaio del 1933 von Hindemburg aveva nominato Adolf Hitler cancelliere del Reich. Il 27 febbraio Ernst Schoen e Fritz Fränkel erano stati arrestati e nessuno ne aveva saputo più nulla. Il giorno dopo i suoi amici, Ernst Bloch e Bertolt Brecht, avevano preso il volo. Il 18 marzo anche lui era salito sul treno per Parigi.
Non che fosse un ricercato. I suoi astrusi articoli sulla letteratura non avevano destato alcun sospetto nei solerti funzionari della Gestapo. Ma era ebreo e prima o poi avrebbero trovato il modo di incastrarlo. Aveva deciso di partire all’ultimo momento; come sempre nella sua vita l’aveva fatto seguendo l’istinto. Solo qualche mese prima era ancora pronto a scommettere che le cose si sarebbero aggiustate, che occorreva essere pazienti. Poi le sue percezioni erano cambiate.
Al Romanisches Café di Berlino aveva lasciato altri ebrei indecisi se attendere gli sviluppi della situazione politica o se abbandonare la Germania. Si assomigliavano tutti gli ebrei seduti ai tavoli di quel caffè. Creature impietrite nelle loro pose, in attesa di essere soffiate via dal vento.
Si guarda intorno. La stanza dell’Hotel Francia è rettangolare; ha la finestra sul lato più lungo; il lettuccio accostato al muro di fronte, con accanto il comodino; l’armadio contro la parete di fondo; un tavolino e una sedia addossati sul lato della finestra. L’ambiente è claustrofobico e decadente, ma lui non se ne lamenta.
«Mi dispiace dottor Benjamin», gli aveva spiegato il proprietario dell’albergo. «Non ho altre stanze libere».
«Non si preoccupi», aveva risposto lui con un goffo inchino, quasi volesse scusarsi di avergli dato l’incombenza di ospitarlo.
In verità della condizione della stanza non gli importa nulla. Nemmeno i dolori allo stomaco, la nausea, l’affanno, la spossatezza, lo preoccupano più. Il senso di rassegnazione che si è sedimentato nel suo animo nel corso delle ultime ore ha spento qualsiasi interesse. Ha persino smesso di scrivere lettere agli amici, alle amiche, ai conoscenti. Gli sembra inutile continuare ad implorare aiuto.
Guarda dalla finestra. Intravede muri di orti, casette basse, gradini che salgono nella parte alta del paese.
La solita beffa del destino. Ora che era riuscito ad arrivare a Port Bou a prezzo di immensi sacrifici fisici, i doganieri spagnoli l’avevano fermato.
«In mancanza del visto d’uscita dalla Francia dovremo riaccompagnarla al confine e consegnarla alla polizia di frontiera».
Le parole dell’ufficiale l’avevano gelato. Ritornare nella Francia controllata dal Governo di Vichy equivaleva all’arresto da parte della Gestapo, insomma alla morte.
Aveva reagito, implorato, ma era stato inutile. Gli avevano concesso, anche per l’ora già tarda, ancora una notte. Una inutile notte da passare in quell’albergo fatiscente, in quella stanza angusta.
Mentre due agenti lo scortavano all’Hotel Francia percorrendo il lungomare, si era inebriato respirando l’aria marina. Odorava di salsedine, di alghe, di scoglio, di sabbia umida, di reti da pesca stese ad asciugare.
«Almeno ho sentito di nuovo l’odore del mare».
Walter Benjamin, raggomitolato sul letto, parla da solo nel silenzio della stanza.
Dalla finestra penetra una luce dorata. Tenue. Forse si è addormentato. Non riuscirà ad aprirla quella finestra, gli mancano le forze.
Non riuscirà a scrivere una lettera nemmeno a lei. Nel dormiveglia la rivede come la prima volta.
Era un giorno di maggio del 1924. Stava seduto allo Zum Kater Hiddigeigei di Capri per il primo caffè della giornata, nella luce del primo pomeriggio. Ed in questa luce aveva seguito con lo sguardo una giovane signora, con cappello a falde larghe, attraversare la piazzetta. Con lei una ragazzina. Mentre la signora scrutava le merci esposte, facendo qualche acquisto, la figlioletta correva allegra attorno alla fontana della piazza.
Aveva trovato il coraggio di fermarla solo tre settimane dopo.
«Gentile signora, posso esserle d’aiuto?» chiese alludendo alle borse della spesa che la donna portava a fatica.
«Prego», rispose la donna porgendogli le sacche colme.
«Permetta che mi presenti: dottor Walter Benjamin”, aggiunse con un inchino e, nel mentre piegava il busto in avanti, le borse gli sfuggirono di mano finendo a terra e il contenuto si sparpagliò per la piazza.
«Asja, Asja Lacis», le aveva risposto lei. «Per favore ora raccolga la mia spesa».
Così il dottor Walter Benjamin aveva rincorso pomodori e melanzane, pere e ravanelli, sotto lo sguardo divertito di Asja, di sua figlia Daga e degli avventori dello Zum Kater Hiddigeigei che avevano seguito la scena.
Era una lettone di Riga. Una rivoluzionaria russa, compagna di Bernhard Reich, noto regista comunista tedesco. Bernhard era rientrato a Berlino e Walter iniziò a corteggiare Asja, seguendola nei suoi giri per Capri, autoinvitandosi a pranzo.
Una notte restò da lei e l’amore li avvolse.
Dora, la moglie, era per lui come una sorella. Quello con Jula Cohn era rimasto un amore a senso unico. Asja lo risvegliò dal letargo erotico nel quale era scivolato.
L’incanto durò dalla fine di maggio a quella di settembre. Esplorarono l’isola, attesero l’alba giocando all’amore e, insieme, raggiunsero Napoli e l’attraversarono in lungo ed in largo. Scrissero a quattro mani un resoconto delle loro gite nella città “porosa”, e Asja dischiuse nella scrittura di Walter la smisurata gioia per il puro piacere di esistere, l’infinita esuberanza, la felicità per il mutamento. Gli opposti non si eliminano l’un l’altro in una “sintesi”, come vorrebbe la dialettica, piuttosto si compenetrano, si sovrappongono, persistono, convivono. La modernità è una stratificazione vivente.
«Se devo morire, voglio farlo con dignità, scegliendo io il come e il quando».
Benjamin parla da solo nell’oscurità della stanza.
Con le ultime forze riempie il bicchiere con la brocca dell’acqua ed inizia ad inghiottire una dopo l’altra le compresse di morfina che ha portato con sé. Una, due, tre, quattro… In qualche minuto svuota l’intero tubetto.
Guarda ancora verso la finestra. Ha udito il rumore di un tuono. Non riuscirà ad alzarsi e ad aprirla. Socchiude gli occhi e si lascia scivolare nell’ultimo sonno.
È il 25 settembre 1940. L’Europa è in guerra.
«Dove a noi appare una catena di eventi, l’angelo della storia vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, e si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo sospinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo».
«Ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta».
La finestra” è un racconto in cinque atti…